L’UOMO CHE AMA LE PAROLE ESSENZIALI
Posted 30 gennaio 2024 by Carlo Menzinger di Preussenthal in Letture, libri, poesia. Tagged: autori fiorentini, autori GSF, autori toscani, italiani, leggere, letteratura, libri, poesia, recensione, Roberto Mosi. Lascia un commento
Se volete farvi un’idea della poetica di Roberto Mosi, non potete che leggere il volume “Amo le parole”, sottotitolo “Poesie 2017-2023”, edito da Giuliano Ladolfi, che raccoglie versi di Roberto Mosi tratti dai volumi:
Il profumo dell’iris
Navicello etrusco
Eratoterapia
Orfeo in Fonte Santa
Dialoghi con Marcel Proust
Sinfonia per San Salvi
Prometheus. Il dono del fuoco
Il nostro giardino globale
I nostri giorni.
Si tratta quindi di una rassegna assai significativa della più recente produzione poetica di questo autore.
Avevo a suo tempo già letto e commentato “Navicello etrusco” e “Prometheus. Il dono del fuoco” oltre ad altre opere di questo autore fiorentino, membro del Gruppo Scrittori Firenze e della Camerata dei Poeti di Firenze, quali “Concerto”, “I barbari” ed “Elisa Baciocchi e il fratello Napoleone” ma anche i racconti nelle antologie del GSF “Le immaginate”, “Le sconfinate”, “Gente di Dante” e “Accadeva in Firenze capitale”.
Che tipo di scrittura vi troviamo? Come scopriremo assieme, sono versi diretti ed essenziali che mirano al cuore delle cose, che parlano di gente e sentimenti reali ma senza sentimentalismi, di luoghi e della loro storia che è soprattutto narrazione di vite passate. Uno sguardo alla memoria e ai ricordi, soprattutto collettivi, ma anche tanta attenzione per il presente e anche un pensiero preoccupato per il futuro.
Nella Prefazione, Carmelo Consoli, Presidente della Camerata dei Poeti di Firenze, esordisce con parole che non posso non condividere:
“Tutta la poesia di Roberto Mosi è innestata su un’instancabile attraversata di territori e immagini di un tempo che dal contemporaneo sconfina nel passato e nell’antico, collegandosi con disinvoltura al mito che ne sorregge e nobilita tutta l’architettura costruttiva”.
Mosi è, infatti, “appassionato seguace del mondo del mito”.
“Il Profumo dell’Iris” si apre con una serie di versi sulle piazze fiorentine. Mosi è autore, infatti, assai radicato nel territorio che ben conosce. Quella su Santa Croce ne coglie le molteplici geometrie poetiche. “L’annunziata” quando conta “trenta le colonne, otto i bambini” ci fa quasi pensare alla magia di una filastrocca. In “Santo spirito” sentiamo in ogni verso lo spirare potente del vento. Parlando de “La Stazione” non poteva che parlarci degli extracomunitari che vi stazionano: “uccelli migratori”. Ne “Le Murate” emergono prepotente la storia ma anche i primi segnali di un ambiente malsano: “il fiume bussò / alle porte del carcere / il mese di novembre/ e volle le sue vittime” poi “venne il tempo della città / che divorò il carcere”. L’amore per il colore di questo fotografo dell’animo domina i versi sullo storico caffè “Le Giubbe Rosse”. “Il Casone dei Poveri” ci parla di un non-castello di antenati che non paiono principi. Ne “L’anello dei viali” con “la polizia in assetto di guerra” scorgiamo tensioni sociali. L’otto marzo della “Manifattura tabacchi” ci parla del popolo femminile di Firenze.
Andrebbe fatto un volume fotografico con gli incredibili (spesso orribili) monumenti che adornano le rotatorie delle piazze italiane. “L’omino della pioggia” ci parla di uno di questi, a Firenze sud, quasi magrittiano. “Le bombe sulle officine di Porta al Prato” creano una sorta di loop nei versi a testimoniare l’assurdo ripetersi della violenza.
Mosi sembra amare i numeri, forse perché in fondo la poesia è anche matematica in parole (metrica e ritmo non lo sono?). In “Le Cure”, però contiamo solo sessanta olive e sei cucchiai d’olio. Per parlarci di Palazzo Vecchio cita Pablo Neruda. Nel “Piazzale degli Uffizi” le figure della galleria escono dai quadri e il poeta conclude con versi che leggerei quasi come un proprio manifesto: “Oggi c’è bisogno / di bellezza, di simboli / sereni del bello”. Bellezza, sì, ma anche serenità e non fini a loro stesse ma per essere simboli e, direi, esempi.
Se in “Vicolo delle brache” facciamo l’incontro soprannaturale con un angelo bianco e uno nero (che forse tanto angelo non è), in “Via del Canto Rivolto”, protagoniste sono le persone, come spesso nei versi del Mosi, gente, però, che scompare “D’agosto” lasciando “l’ascensore immobile / gli appartamenti vuoti”. Con “Le rificolone” sono i ragazzi e i bambini a popolare di nuovo le strade in questa festa tutta fiorentina.
Quando si arriva “Allo Stadio” la gente si fa folla e l’autore dice “mi perdo nella banalità / delle parole di Vasco” ma questa banalità non deve essere poi così negativa visto che si trova anche lui a cantare.
“Campo di Marte” con la sua stazione non può che essere luogo d’incontri e anche del quartiere di “Rifredi” dipinge il passare dei treni. Quanta storia e quanta vita riesce a scoprire in un quartiere all’apparenza nuovo, come Novoli, “fra monconi di cemento” “dove fiorivano / d’inverno rose scarlatte”.
Come non ricordare l’attentato di “Via dei Georgofili”, ma in questi versi l’esplosione anziché allontanare pare unire, ravvicinando questa via del centro fiorentino con “Il Gigante dalla collina di Pratolino” che maledice questa ferita ingiuriosa.
Ed ecco comparire Rosai, Cajkovsji, Vinicio Berti mentre persino “Peretola” pare avere una storia da raccontare con “sui tavoli lattine di Coca Cola”. In un “Quartiere popolare” “il cortile ha il respiro / della gente che dorme”: Firenze città di persone, di storia e di storie.
Mentre “s’intrecciano mani di ogni colore” tra la gente si fa largo il mito e “Dal Pratomagno spunta la luna / fauni e ninfe escono dai boschi”. Eppure, a “Fiesole”, anche una “immobile lucertola” può essere protagonista davanti alla Cupola.
Roberto Mosi
Sovente i popoli restano legati alle loro origini storiche per quanto remote. Questo vale di certo anche per i Toscani, che ricordano con nostalgia i momenti di maggior gloria del proprio passato da, andando a ritroso, gli anni in cui Firenze fu capitale del regno d’Italia, ai tempi del Granducato di Toscana per arrivare sino ai fasti del popolo etrusco. Le origini etrusche sono anzi quelle di cui vanno più fieri, se non altro perché non rappresentano un fugace momento di gloria passeggera ma appunto l’origine della propria cultura.
Il poeta Roberto Mosi sembra ben conoscere e immedesimarsi in questa passione per i tempi precedenti la dominazione romana.
Ciò traspare, in particolare, in “Navicello etrusco”, titolo che prosegue quasi nel sottotitolo “per il mare di Piombino” (Edizioni Il Foglio, 2018).
Che etruschi fossero alcuni dei primi re di Roma è cosa se non certa, almeno probabile. Che anche etrusco fosse quel Dardano che fondò Troia, dalla quale partì poi Enea per una sorta di viaggio di ritorno verso la nostra penisola e per porre le basi di Roma forse è solo leggenda.
Per i Greci, per esempio, questo figlio di Zeus ed Elettra nacque in Arcadia e da lì si spostò in Dardania, poi ridenominata Teucria per suo nipote Troo, terra dove sorse poi Troia.
Fu piuttosto Virgilio a narrare che Dardano venisse dall’etrusca Corythus ed è lì che il poeta latino fa tornare Enea, alla ricerca della terra degli avi.
Questa versione sposa il fiorentino Mosi quando scrive “Dardano partì dall’Etruria / per fondare la città di Troia”, ma questa è per lui occasione per suggerirci con levità l’immagine di moderni viaggi per la medesima rotta, quelli dei “migranti in fuga” di oggi.
E già, perché Mosi, con uno sguardo alla storia antica, tiene però i piedi saldi nella quotidianità e non la dimentica mai, con la sua vita e i suoi drammi.
La sua Toscana è una “terra che ha smesso / le vesti proletarie per i vestiti / raffinati della cultura”, che, però, mai può dimenticare le proprie basi contadine. Mosi alla cultura del suo popolo è sempre attento, così come ai miti antichi, come ha mostrato anche nel suo “Prometheus”, che ci parla, per brevi fotografie poetiche, dei tanti muri di ogni tempo.
Come può far intuire il titolo, “Navicello etrusco” non ci canta solo della terra ma anche e soprattutto del mare. Quello tra Populonia e Piombino in particolare, la rotta del ferro degli antichi avi.
E questa raccolta di versi è un viaggio attraverso queste acque ma anche attraverso il mare della Storia.
La raccolta è divisa in due parti, l’una dedicata a Turan, la dea etrusca dell’amore che, come Narciso, ama specchiarsi, l’altra richiama l’immagine della statuetta votiva denominata da D’Annunzio “L’Ombra della Sera” (facile per il lettore non comprenderne il riferimento, che pare solo una poetica descrizione dello scorrere del tempo). Due parti ma un unico viaggio nel tempo che ci porta ad assistere, per velocissimi accenni, piccoli flash fotografici, alle invasioni barbariche, all’attraversata del Mediterraneo di Rutilio Namaziano, alle invasioni dei Goti e San Cerbone, alla caccia alle streghe, a Napoleone all’Elba con Maria Walewska, alla Seconda Guerra Mondiale con la batteria di Punta Falcone, ai disoccupati dell’era industriale, ai migranti di oggi.
Scorgo poi in questi versi il passo dello stesso Roberto Mosi sulle spiagge del litorale toscano, Baratti, Populonia, Vada.
“Le onde mormorano alla spiaggia/ bianca, la luna invade / il silenzio della camera”.
“Mi lascio andare alle onde, il fresco / dell’acqua accarezza il mio nuoto leggero”.
Eccolo mentre osserva “Marta e Anna” che “sono / padrone della spiaggia. // Marta compone un tappeto / di ciottoli”. Eccolo mentre affronta le fatiche dei vacanzieri, “il serpente di macchine. / Una striscia ininterrotta / di lamiere scintillanti”. Eccolo che “Dalla terrazza dell’albergo” respira “l’aria del mare”.
Eccolo attento osservatore della natura, delle “Zone libere / zone che sfuggono al nostro controllo, / meritano rispetto per la loro verginità / per la loro disposizione naturale all’indecisione. / La diversità / trova rifugio su il ciglio della strada”.
Èrato (Ερατώ), figlia di Zeus e di Mnemosine, è per i Greci una delle Muse, quella del canto corale e della poesia amorosa.
Roberto Mosi intitola un suo volume, qui ripreso, “Eratoterapia”: la poesia come cura per l’anima.
Il capitolo decolla con una corsa di una coppia in bicicletta che canta come “un’orchestra volante”: un video-clip in parole.
In Piazza Duomo, davanti a “La Cupola” una bambina, quasi come un autistico, conta ogni cosa, ma in quella conta c’è tutta la sua vitalità infantile.
Può essere la poesia un mestiere? Una bambina lo crede, pensando a “Il nonno poeta”. Beata lei.
I bambini sembrano dunque protagonisti di questa cura in versi anche in “Passi sulla neve” dove “I miei passi pesanti / seguono i tuoi leggeri” se come mi pare le “impronte innamorate” sono quelle di un adulto e un bambino.
Già s’è detto dell’uso frequente del colore nei versi di Mosi. In “Parola – poesia” ne abbiamo un altro esempio: celeste, rosso, bianco. Sono, come qui, spesso colori essenziali, netti, decisi, senza sfumature. Quasi matematici, come certi conteggi che talora incontriamo nella sua poetica: non soggetti a dubbi.
La memoria! Mosi è poeta di visione ma anche di ricordo. Di pensiero e di riflessione. Eppure quando “si mette in moto il motore / della mente” vorrebbe poterlo fermare, come fosse un computer da resettare o spegnere.
Il capitolo si conclude con i versi che hanno dato il nome alla raccolta “Amo le parole”: “Amo le parole / che si sollevano dalle strade / con il respiro della poesia”. Già, le strade, le piazze, i luoghi, vera fonte d’ispirazione di questo poeta.
Dopo questi versi un intermezzo non poetico, la “Lettera a Marta” che è però un altro piccolo manifesto di ciò che Mosi intende per poesia: “Fai in modo che il tuo comporre sia una voce essenziale, senza fronzoli, che navighi in mezzo al vero della vita, giocando, a volte, se credi, con i riflessi che brillano dagli specchi del mito.” “Evita, poi, i cascami ammuffiti dele vecchie stagioni della poesia, che hanno fatto il loro tempo”. “Crea percorsi coinvolgenti per te e per gli altri”. E non è forse così che scrive Mosi? Non ho scorto mai toni pomposi ed epici o lirismi sdolcinati: narra la vita e la storia (che è vita del passato) come tratti veloci e netti, essenziali, come scrive lui stesso.
Il successivo capitolo è “Orfeo in Fonte Santa”. Ci narra di un luogo toccato più volte dalla storia. Fu rifugio dei partigiani presso l’Antella di Firenze ma anche, trecento anni prima, luogo dove una “allegra brigata di letterati, scienziati e amanti della bella vita” la scelsero come luogo dei loro incontri, chiamandolo anche Fonte di Baci o Fonte Castalia, creando il movimento letterario dell’Arcadia.
Alla Fonte Santa “brilla il vortice del silenzio” e il poeta può gridare al mondo “io sono”, mentre “angeli migranti danzano / leggeri come il vento che giunge / dal Mediterraneo”, finché a spezzare l’incantesimo del luogo non v’è “sangue, sangue sul verde / delle foglie, sul pavimento/ della Cattedrale”. Luogo di poeti, partigiani ma anche “Migranti giunti dall’Africa / dalla Siria”. “Ogni sera un riparo diverso”.
I “Dialoghi con Marcel Proust” ci parlano dell’opera di Giotto e riprendono le parole di Proust su Ponte Vecchio.
La follia dei manicomi, la follia della loro esistenza e quella racchiusa in loro sono in “Sinfonia per San Salvi” su questo luogo di cura psichiatrico fiorentino, che parla de “la nave dei folli dal padiglione / delle Agitate”. Qui la gente di Firenze è divisa tra “Tranquilli, Infermi / Paralitici, Semi Agitati ed Epilettici / Agitati” che si deve “Sorvegliare Contare Proteggere”, in un tempo in cui è “Elettricità cura prima del cervello / delle Agitate”.
“Promethèus” ci parla di muri di ogni parte del mondo, ma si capisce che il poeta è di Firenze, città orfana delle mura di cinta, sin dal “risanamento” del Poggi che voleva mutarla in capitale d’Italia, ma ricca di “muri privati” onnipresenti. Mura di ville che cingono le strette viuzze collinari tra piccoli bastioni che celano la vista dei giardini retrostanti, case dalle mura di pietra e dalle alte finestre. Una città troppo fortificata per poterci ambientare una storia di zombie, quelle creature semi-vive che nei film americani dilagano ovunque abbattendo fragili porte-finestre e vetrate senza imposte o inferriate.
Una città priva delle grandi periferie delle metropoli ma non per questo orfana del tocco irriverente dei writer, che lasciano i propri graffiti in sottopassi, lungo i binari della ferrovia o su edifici che sono quasi archeologia industriale.
Lo sguardo poetico dell’autore va, infatti, spesso proprio alle opere di questi artisti di strada.
Il titolo “Promethèus” rimanda alla mitica figura che diede il fuoco all’uomo, ma anche “l’idea del calcolo” e “il sistema dei segni tracciati”. Padre, quindi, dell’energia, della tecnologia ma anche della scrittura e, perché no, dei graffiti, della “fantasia dei colori” che riempiono “strade periferiche/ muri della ferrovia / sottopassi nell’ombra / saracinesche abbassate” in queste nostre “Città a misura d’automobile”. Sono quadri che “vivono dell’aria / delle strade, dei muri bagnati”.
Di quali muri ci parla?
Oltre a quelli di Firenze, quelli di Gerusalemme, di Berlino, del Messico, di Melbourne, di Rio de Janeiro.
E chi si muove tra questi muri?
Ecco i pugili che “combattono miserie”, ecco “l’omino magro” che “esce dalla fogna”, “un grappolo di palloni in mano”, ecco che “il Giullare s’intrufola, follia / dei segnali / lo spray nella mano / la freccia stradale infilza un cuore / il Cristo pende dall’incrocio”.
Ecco i malati dei manicomi dipingere i muri delle loro case-prigione.
Ecco gli antenati dei writer all’opera nelle grotte di Lascaux.
Brevi poesie di grande forza visiva che sono fotografie. Del resto, si sente, il Mosi non è solo poeta, ma anche fotografo.
La sensibilità ecologica e ambientale di Roberto Mosi affiora nel capitolo “Il nostro giardino globale”: cita Giorgio Caproni “L’amore / finisce dove finisce l’erba / e l’acqua muore”.
Scrive invece Mosi stesso: “Il nostro giardino viaggia / nello spazio infinito” mentre “L’esercito di plastica” “trascina / l’artiglieria pesante, tronchi / bidoni, misteriose carcasse”, “inseguite da nere / placide, strisce di olio”, in un mondo in cui “misurano la ricchezza / dai rifiuti di ogni giorno”.
E mentre crollano ghiacciai e montagne e la siccità miete vittime, “gli orsi polari hanno / imparato a strisciare / per non rompere lo strato / sottile del ghiaccio”.
Mentre il caldo aumenta e i mari si alzano l’autore si chiede se “I pesci nuoteranno per le strade / di Viareggio, di Livorno?” Pare immagine assurda ma, ormai, difficilmente potrà avere risposta negativa.
“I nostri giorni” riunisce versi pubblicati sulla pluridecennale rivista “L’Area di Broca” di cui è anche redattore, ormai, temo, prossima alla chiusura. Parlano di stranieri, pandemie, vita e morte, conflitti, futuri, rivoluzioni digitali e intelligenze artificiali.
Completa il volume la postfazione di Giuliano Ladolfi che sottolinea l’importanza nei versi di Mosi dell’eratoterapia: la poesia come cura, forse non solo dell’anima del poeta o del lettore ma anche del mondo intero di cui Mosi denuncia le fragilità, i pericoli. Ladolfi nota anche che il poeta “assegna la scrittura in versi alla dimensione umana e non a quella puramente intellettuale e linguistica.” “Se «la poesia prende il posto dei sogni», è fondamentale che a tutti sia concesso di sognare tramite quest’arte.”